domenica 13 giugno 2010

epilogo


La barca faceva acqua.

Diverse volte ne ho avuto la percezione, dopo il primo periodo di sublime navigazione.

Inoltre l'altro marinaio, il mio socio, era sparito. E il comandante non s'era proprio visto.

Ero sola, in mezzo al mare, sopra una barca che si stava inabissando.

Guardandomi intorno non vedevo altro che mare. Mare adorato in cui tanto avevo desiderato navigare.

Ma non avevo scelta, dovevo saltare.

Così una mattina ho lasciato la barca al suo destino e ho cominciato a nuotare.

Non so per quante ore l'ho fatto, forse per diversi giorni.

Ogni tanto per riposare facevo il morto e il mare, che è mio amico, mi trasportava.

Ho visto pesci di ogni genere. Alcuni mi hanno fatto ridere, altri paura.

Mi sono lasciata cullare a lungo e a lungo, riprendendo le forze, ho nuotato.

Devo anche aver pianto, a tratti. Ma le lacrime si sa sono salate e il mare le assorbe volentieri.

Poi ho cominciato a vedere qualcosa.

Qualcosa silenziosamente stava cambiando sul mio orizzonte e quando finalmente sono riuscita a mettere a fuoco l'ho visto.

Il mare mi stava riportando a casa, mi stava riportando al Faro.

Mi sono lasciata adagiare su quella spiaggetta che ormai non avevo più forze e sono rimasta a guardare.

Quello che vedevo sopra di me era sicuramente il mio Faro ma.... era abitato.

Attorno al tavolo, sotto la pergola, discutevano animatamente un uomo dai tratti e dall'accento rom, un nero, probabilmente cetrafricano, e una donna .

La donna era di spalle e non potevo vederla in viso, ma sulla spalla teneva una grassa gatta a tre colori. Sotto al tavolo invece dormiva un cagnone bianco e grigio dall'aria bonaria.

I tre non smettevano di discutere e ridere. Sembravano tre ragazzini ma probabilmente erano tre nonnetti.

Poi la donna si è alzata, facendo rotolare la gatta a terra, e ha fatto qualche passo in direzione del mare.

In quel momento ho capito che nuotando dovevo aver superato qualche barriera spazio/temporale, perchè quella donna ero io.

Certo dovevano essere passati diversi anni. Lo intuivo non tanto dal suo aspetto fisico, quanto dal senso di compiutezza che emanava.

Restai lì a lungo, come spiando in uno dei futuri possibili.

E mentre mi domando se futuro può supportare il plurale, vengo colpita da una tavola ricurva portata dal mare.

Non mi ci vuole molto a riconoscere un pezzo della mia barca, quello su cui ancora, un po' sbiadito dal mare, si può leggere il suo nome: Respiro d' Amore Impossibile.


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