Quella volta me la ricordo
bene.
In realtà ero convinta di aver già avuto la mia vittoria, ero passata dall'essere
spalmata a terra azzerbinata, ad una posizione molto più elevata:
avevo conquistato l'indipendenza e ora avevo la mia sedia, potevo
mettermi seduta e non permettere più a nessuno di calpestarmi.
Da qualche tempo infatti
pensavo di essermi messa al sicuro, infilata in un preservativo
gigante mi proteggevo dalle possibili contaminazioni affettive, dal
dolore ma anche dalla gioia.
Nutrivo la mia vanità con
la compiacenza e ignoravo completamente il senso della compassione.
Ma stavo bene, o così
pareva, piuttosto allegra e spiritosa, anche se un po' defilata, con
un piede sempre fuori dalla porta.
Scansavo le
contraddizioni, le complicazioni e il confronto.
L'idea di affrontare altre
difficoltà non mi piaceva per niente e alla prima percezione di
dolore avevo già pronta la mia via di fuga.
Però quella volta me la
ricordo bene. Avevo deciso di provare ad alzare un po' l'asticella,
cominciavo ad osare pensare di meritarmi una felicità meno effimera,
una felicità autentica, solida.
Con questo pensiero in
mente quella mattina, non solo mi ero alzata un'ora prima e avevo
fatto un'ora di Daimoku, ma avevo anche deciso che qualunque cosa
fosse successa avrei continuato a farlo per almeno un anno. E poi
ancora, per tutta la vita.
Non avevo più pensato
“per tutta la vita” da un sacco di tempo e già questo mi fece
sospettare di aver dato il via a qualcosa di inarrestabile...
Poi il resto venne da sé:
cominciai con l'alzarmi completamente in piedi e spalancando la
porta scoprii che non avevo più bisogno di nessuna via di fuga.
Provai a guardare la mia
vita dall'alto per capire cosa dovevo cambiare e vidi che era già
cambiata.
Sì, quel giorno avevo
accettato le conseguenze del mio desiderio di andare oltre al quieto
vivere, di aprire il cuore e accogliere gioia e sofferenza.
Non volevo più scappare,
avevo vinto su me stessa.